Attraverso sentieri secondari, ben studiati nelle
settimane precedenti, raggiunsi la località chiamata Pianca, un
villaggio montano di circa trecento abitanti e da lì, visto almeno da
otto o dieci persone, presi il sentiero che conduce al monte Cancervo. Il
sentiero lo conoscevo alla perfezione, ma la stanchezza e la tensione
accumulata erano tali che rischiai più volte di cadere nei profondi
dirupi che lo costeggiano. In pratica, barcollavo. La giornata era serena,
molto soleggiata, e il fresco del primo mattino aveva lasciato posto a una
calura opprimente. Maledissi gli abiti autunnali, che mi facevano sudare in
modo inverosimile. Ero tutto bagnato.
Poco sopra l'abitato incontrai un conoscente,
Amerigo Rampini, detto
Ligèr per via del
fatto che era pelle e ossa. Nulla sapendo di quanto accaduto,
Ligèr si fermò in mezzo allo
stretto sentiero per attaccar discorso. L'ultima cosa al mondo che avrei
voluto era fare conversazione, ma se quello non si spostava non c'era verso
di passare oltre.
"Simone, non è tardi per andare a
caccia?".
"Oggi ho cacciato a quota bassa,"
risposi con un filo di voce, "sette prede nel carniere, l'ultimo merlo
mi è sfuggito".
"Ma non è da par tuo cacciare merli,
dovresti dedicarti solo a prede grosse, con la tua mira".
"Erano grosse le prede, stai tranquillo,
scendi in paese e saprai".
"Ma che hai, sei bianco come un cencio e ti
vedo stravolto. Ti senti bene?".
"Mai stato meglio; oggi mi sono tolto un peso
enorme e adesso sono più leggero di te; ho fatto giustizia di chi mi
ha perseguitato. Quando scendi mi devi fare un favore: va' da mia moglie, si
trova a San Gallo dai suoi, dille che ho lasciato due lettere nella stanza
della Roncaglia, una per lei e una per i ragazzi. Devi darle anche questi
soldi" trassi di tasca le 1.200 lire prese all'Orobia "e dille che
deve perdonarmi, se può, ma o facevo quel che ho fatto o per me la
vita era finita. Se mi ammazzano morirò con le armi in pugno,
combattendo, e non giorno per giorno con il cervello e il fegato bruciati dal
vino e dalla grappa".
Ligèr era
frastornato, ma prese il denaro e promise di svolgere il compito affidatogli.
Lo salutai con una stretta di mano e ricominciai a salire. Passai le baite
dette di Cantiglio e dopo un'altra ora abbondante di salita ero sui pascoli
delle mie montagne; mi buttai sull'erba a riposare, con la testa che non
funzionava granché per la stanchezza. Erano le 15, e il sonno mi colse
improvvisamente, senza darmi il tempo di scacciarlo.
Mi svegliai di soprassalto dopo due ore; guardai
in giro terrorizzato, ma non c'era nessuno in vista. Scrutai più
attentamente col binocolo: nessuno. Indugiai, seduto sull'erba: tutto era
andato in modo soddisfacente, giustizia era fatta, a parte Palanca, ma non mi
potevo lamentare, sette su otto costituivano una media eccellente. Trassi di
tasca il foglio gualcito sul quale avevo scritto tempo prima i nomi dei
predestinati a morte e lo stracciai, avendo cura di riporne i resti sotto un
masso. Era fatta, non c'era più ragione di continuare con l'ossessione
della vendetta.
Il tempo, in montagna, si guasta rapidamente, e
infatti stavano arrivando dei nuvoloni neri che promettevano un temporale coi
fiocchi.
Prima della pioggia mangiai parte delle provviste
e guardai in basso col binocolo. Sul sentiero non si vedeva anima viva e
così mi incamminai molto lentamente verso il centro del pianoro erboso
che costituisce la sommità del massiccio, tenendomi dalla parte del
passo Grialeggio, dove è più facile scorgere persone risalire.
Un inseguimento in giornata era poco probabile; era tardi e stava per piovere,
e in più gli inseguitori avrebbero dovuto organizzarsi: no, sarebbero
saliti l'indomani, ottenuti rinforzi.
La pioggia scendeva a catinelle, ed ero fradicio
nonostante la cerata; pertanto, contando su una nottata tranquilla, decisi di
raggiungere la baita del
Sifol, che avevo
frequentato quasi quotidianamente in occasione delle cacce, prima di affogare
nel vino. Il suo cane, un meticcio di grossa taglia, mi fiutò quando
ancora ero a un chilometro e cominciò ad abbaiare. Nessuno sfuggiva a
quel cane. Quando stavo a circa cento metri dalla cascina
Sifol uscì fuori, sotto la pioggia, con un
fucile in mano. Il cane, che mi conosceva, mi faceva le feste.
"Simone, avevo pensato a un lupo; sono
ricomparsi da queste parti, e ogni tanto aggrediscono un vitellino. Ma che
fai qui, a quest'ora della sera?".
"Lo verrai a sapere presto. Intanto ti chiedo
ospitalità per la notte e qualcosa di caldo da mangiare vicino al
fuoco".
"Certo, questa è casa tua, qualsiasi
cosa sia successa, sappi che sono tuo amico e che su di me puoi contare".
Mangiammo della polenta e un cosciotto d'agnello e
poi, verso le nove, quando il tempo si era rimesso, stanchissimo, mi buttai
su della paglia e dormii un sonno pesante. Sognai di volare, di stare tra le
nuvole, senz'ali ma capace di librarmi nell'aria. Nessuno ci credeva, ma io
li stupivo volando sopra di loro, con un fucile in mano. Volavo a grande
altezza e come un falco scendevo e colpivo, senza ucciderli, Colleoni,
Rinaldi, Cortinovis e gli altri. Li toccavo col fucile ma non sparavo, per
umiliarli, vederli soffrire, terrorizzati. Da terra, Susan, bellissima, mi
incoraggiava e applaudiva, felice.
Mi svegliai alle cinque del mattino.
"
Sifol, oggi o
domani verranno i carabinieri e ti chiederanno se mi hai visto. Che
risponderai?".
"Ma io non ti vedo, Simone, parlo con me
stesso, sai, per la solitudine, ma non ti vedo da mesi".
"Ciao
Sifol, mi
raccomando, non credere a tutto quello che diranno sul mio conto. Ho bisogno
del tuo aiuto e se non mi prenderanno presto ci incontreremo di nuovo".
Mi allontanai col fucile a tracolla.
"Ma che hai fatto, Simone, è qualcosa
di grave?" disse quando ero già lontano.
"Lo saprai tra poche ore, non ti
preoccupare" risposi salutando con la mano.
La giornata era magnifica e l'alba rischiarava lo
splendido ambiente alpino, con le vette più alte in lontananza a nord,
e la pianura, che si intuiva appena, in direzione opposta.
Mi appostai sopra i picchi che costeggiano il
passo Grialeggio, la via più breve per chi proviene da San Giovanni
Bianco o da Camerata. Verso le nove vidi col binocolo una quindicina di
uomini che, in colonna, salivano verso il passo. Alcuni, una decina,
indossavano la divisa dei carabinieri, ma c'erano anche dei borghesi, bravi
cittadini che affiancavano le forze dell'ordine.
Avevo due possibilità: rimanere acquattato
tra le rocce o impegnare uno scontro a fuoco da una posizione molto
favorevole e con un'arma più precisa del moschetto in dotazione ai
militari.
Decisi di nascondermi, perché non avevano
cani e trovarmi, in quel labirinto di rocce, era quasi impossibile se non
ero io stesso a tradirmi con qualche movimento imprudente.
Temevo si installassero nelle baite di
Sifol e di
Caaler,
perché ciò avrebbe reso difficile ogni movimento, in
particolare la ricerca di cibo.
I carabinieri e i cittadini che li accompagnavano
non ebbero quell'intuizione o quella possibilità e, dopo aver
inutilmente interrogato i due mandriani e perlustrato il pianoro, non
poterono che tornare a valle con le pive nel sacco.
La sera, dopo aver controllato che se ne fossero
andati, tornai a dormire da
Sifol, minacciato di
arresto se mi avesse visto e non avesse riferito alle autorità.
Il giorno dopo furono condotte ricerche più
approfondite: una colonna di una ventina di carabinieri accompagnati da una
decina di cittadini amanti dell'ordine armati di doppietta, salì da
Grialeggio e altrettanti da Baciamorti.
Dalle solite rocce, con il binocolo, li osservavo
distintamente sbuffare per il caldo e fermarsi ogni quarto d'ora per
riprendere fiato; non erano abituati alla montagna, e si vedeva.
Dal mio rifugio tra le rocce avrei potuto colpirne
almeno uno con una certa facilità, ma mi limitai a osservarli e a
tenerli d'occhio. Questa volta sei uomini pernottarono alla baita di
Sifol e altrettanti a quella di
Caaler. Gli altri scesero a valle. Dovetti
dormire tra le rocce nonostante la pioggia incessante di tutta la notte. A
poco valse la cerata che avevo con me: il mattino seguente ero tutto bagnato,
le articolazioni mi dolevano terribilmente e se fossi stato
costretto a correre mi sarei trovato in grande difficoltà.
L'umidità e il freddo erano più temibili dei carabinieri.
Passai un'altra giornata a osservare le inutili
ricerche: con delle provviste e rimanendo nascosto, per loro era come cercare
un ago in un pagliaio.
A sera contai gli uomini che scendevano da
Grialeggio: straordinario, erano più di quelli saliti, segno evidente
che anche i piccoli contingenti lasciati a presidio delle baite erano scesi a
valle. Al tramonto lasciai lo scomodo rifugio e mi avvicinai circospetto alla
baita del
Caaler. Il cane percepì la mia
presenza e cominciò ad abbaiare. Nessuno usciva. E se fosse stata una
trappola? Ero indeciso se correre il rischio o tornare tra le rocce; poi,
finalmente, il mio amico mandriano uscì per vedere che avesse da
abbaiare. Fischiai a imitazione di un uccello notturno, ma mi riuscì
malamente: "Chi va là? Chiunque siate fatevi riconoscere o
sparo". Teneva in mano una doppietta scassata, che, se usata, rischiava
di esplodere in mano al suo possessore.
Caaler
era imprudente, perché restando nel cono di luce proveniente dalla
porta aperta era un bersaglio facilissimo.
"
Set despertè o
al ghé ergù det?" (sei solo o c'è qualcuno
dentro?) dissi in dialetto nell'illusione di non essere capito da eventuali
carabinieri, tutti meridionali.
"
Se ta set ol
Simù ve sà, sò despermè" (Se sei
Simone vieni, sono solo).
Il desiderio di sfuggire all'umido della notte fu
più forte della prudenza e, circospetto, mi avvicinai col fucile
spianato. Dentro non c'era nessuno.
"Scusami, ma avevo il dubbio che fosse
rimasto qualcuno".
"Ti stanno cercando decine di persone,
Simone, oggi hanno tentato di farmi paura dicendomi che ti sto aiutando e
che mi farò anni e anni di galera per favoreggiamento di un
pluriassassino; un ufficiale mi ha persino sbattuto contro un muro per
impressionarmi. Però stai tranquillo, non tradisco, io. Me lo sentivo
che eri da queste parti".
"Hanno detto qualcosa di mia moglie e dei
miei figli?".
"Sì, che tua moglie è
disperata, chiusa in casa con le finestre e le imposte sbarrate dal giorno
del fatto e che verrà arrestata per complicità, perché
secondo il procuratore del re Dolfin, che è a San Giovanni Bianco, non
poteva non sapere. Un vero stronzo quel Dolfin, un arrogante damerino che
dalla tua cattura ricaverebbe benefici per la carriera".
"Se quello osa fare una cosa del genere torno
giù e faccio un'altra strage! Ma tu come fai a sapere che è un
damerino?".
"Quando sono stato processato, anni fa, sai,
per quella storia del cavallo rubato e macellato, era appena arrivato in
città, fresco di nomina e pieno di boria. Ricordo ancora la sua faccia
sprezzante; quando mi interrogò in carcere mi fece sedere su una sedia
ad almeno dieci metri dalla sua scrivania; dovevo gridare per rispondere alle
domande. Forse pensava che standogli vicino gli avrei attaccato la rogna. I
carabinieri hanno detto che è in paese anche l'onorevole Belotti".
"Belotti mi è stato vicino, mi ha
anche aiutato economicamente. Non consentirà l'arresto di Carla".
"Domani e nei prossimi giorni saranno ancora
qui e le ricerche proseguiranno con molti più uomini: hanno detto che
sono arrivati contingenti da Milano, da Brescia e da altre città, cui
si aggiungeranno certo dei paesani di supporto. Penso che domani lasceranno
un presidio permanente alle baite, anche a quelle dei pastori. Ti sarà
difficile avvicinarti".
"Me ne starò lontano, non preoccuparti,
oggi però ti chiedo ospitalità e delle provviste".
"Non ti preoccupare per questo, un po' di
polenta e carne secca c'è e ci sarà sempre per te, però
attento a domani e ai prossimi giorni, perché dormendo in quota
partiranno per le ricerche riposati".
La notte piovve ancora, e starmene vicino al fuoco
mi diede grande giovamento.
Non sapevo bene che fare; il piano che avevo
studiato prevedeva la strage e la fuga sui monti, ma dopo? Come scenderne e
come allontanarmi? Dove andare? Non avevo previsto alcunché nella
consapevolezza che mi sarebbe stato difficile uscirne vivo. Di certo gli
accessi alla valle e a ogni paese erano vigilati.
L'indomani, rinfrancato dal confortevole riposo e
con un pasto caldo nello stomaco, mi apprestai a lasciare la baita. La
giornata era calda e soleggiata.
"
Caaler, hai
presente la roccia dell'orso, dopo Grialeggio?".
"Certo".
"Ai piedi c'è una grossa pietra,
liscia e piatta; sotto c'è una buca. Ti sarò grato se scenderai
a valle, tra qualche giorno e, risalendo, stando molto ma molto attento a non
farti scoprire, lascerai delle provviste e dei giornali sotto quel masso.
Debbo sapere cosa dicono di me".
Il mandriano accettò, confermando che
sarebbe sceso appositamente di lì a qualche giorno, non subito per non
insospettire i carabinieri.